Una donna, tanti uomini, il racconto lucido e disinibito di torbidi incontri, oscure fantasie, brucianti oggetti del desiderio nel romanzo di una scrittrice proibita di successo che si nasconde dietro uno pseudonimo, già autrice di E duro campo di battaglia il letto e Il sesso degli angeli. Un Gioco dei Sensi assoluto e senza limiti, che vi lascerà senza fiato.
estratto da 'L'Ultimo desiderio'
Quando ha cominciato a parlare sapevo che non avrebbe smesso tanto facilmente e mi sono rilassata conoscevo già il suo testo. Dunque ancora una volta metteva in dubbio il mio lesbismo (scuotimento di testa da parte mia: sempre avevo negato d’esser lesbica), anzi metteva in dubbio tout court la mia potenza sessuale e perfino sospettava in me un’inesistenza della libidine, ben sapendo di offendermi (mio rossore di sdegno); non contento diventava provocatorio e insinuava che da ben due anni fossi stata condiscendente ai suoi desideri per pura finzione, al solo scopo meschino di legarlo a me e perché no di sposarlo, facendomi credere assatanata di sesso mentre miravo solo al focolare. Ovviamente sapeva benissimo che sono allergica al matrimonio più di lui, se non altro perché al contrario di lui sono già stata sposata, e per giunta non poteva ignorare che sono meno possessiva di lui, visto che da ben due anni lo frequentavo dividendone il tempo e la potenza con la sua primadonna, una tale che fa il consigliere comunale. Ferita da tanta ingiustizia non ero più rilassata, avevo le lagrime agli occhi e la bieca tentazione di mandare tutto a monte con una scenata definitiva (pur sapendo benissimo che con Matteo non potevano esistere scenate definitive) sicché per controllarmi mi appoggiavo fermamente all’indietro con la nuca riversa sulla spalliera del divano. Pertanto non l’avevo visto alzarsi quando il divano ha boccheggiato prima a destra poi a sinistra e mi sono trovato Matteo addosso, la sua lingua in bocca, le mani non so dove sotto i vestiti, le sue ginocchia che mi stringevano le cosce, e naturalmente l’ho abbracciato forte, abbracciavo il suo cardigan consunto, poi m’infilavo sotto per abbracciargli la camicia, sapevo che il tempo di svestirlo non ci sarebbe stato. Adesso era smontato da me e subito mi aveva sollevata, messa in ginocchio sul divano piegata sulla spalliera, vedevo il parquet mentre lui mi abbassava i calzoni, sotto ero nuda e ho sentito il fresco dell’aria, una mano severa mi premeva la vita per farmi alzare meglio i fianchi: qualcosa di me veniva preso di mira, qualcosa di morbido e di acuminato, qualcosa di bagnato di saliva e di adamantino si appoggiava ormai contro il mio accesso contratto dall’ansia e cominciava a spingere, avrebbe continuato a spingere per tutto il tempo, fino alla fine del mondo, mi apriva con la solita dolcezza inesorabile, mi faceva un gran male, il dolore mi rialzava la testa, gli ho parlato del dolore, l’ho pregato di fermarsi, sapeva che mentivo, con ogni spinta entrava più a fondo e fino alle ossa, tenendomi i fianchi mi parlava d’amore, dei suoi sogni indecenti, immaginavo i suoi occhi socchiusi, fissi nel vuoto a contemplare i suoi sogni, e intanto il mio dolore non c’era più, c’era la solita gioia pervasiva, totale (lui lo diceva sempre che era quello il sistema per mettermi di buonumore, diceva che dopo ogni inculata cantavo a squarciagola sul bidet e non aveva torto). Pertanto ho subito mostrato il letto a Magda e mi sono anche tolta d’un colpo gli indumenti di sopra, trequattro perché sono freddolosa, con le ossa al vento che mi ritrovo. Magda vestiva in maglione per altri motivi, come avevo intuito: per vergogna di ciò che premeva selvaggio sotto lana coriacea; difatti si è messa a slacciarsi le scarpe. C’aveva due piedi grandi bianchi alla fine dei calzoni beige. È risalita alla chiusura lampo degli stessi senza alzare la testa (era seduta sul mio letto), sebbene io nel frattempo mi fossi anche tolta le cose di sotto (non un gran che) scarpe e calze comprese. Nuda dunque l’ho osservata mentre, sfilatisi i pezzi di sotto, si alzava tra rullar di tamburi per liberarsi del sopra bluinchiostro che, ad eccezione di due bianche cosce, la nascondeva ancora per intero. Come nel primo bar ci siamo fissate negli occhi: dopodiché con uno scatto vulcanico – io ho smesso di respirare – si è strappata da sopra il ferrigno arnese ed è rimasta eretta davanti a me col più immenso soave incredibile seno che avessi mai veduto stringere da reggipetto di cotone nella mia vita! Roba da svenimento! Nel corso della notte d’amore ho altresì constatato che anche il culo e la pancia, compressi di norma dai bluejeans di velluto, si spantegavano a nudo dolcissimi per le mie mani, per le mani di chiunque. Non so per quanto tempo sia stata lì incantata a succhiarle le tette, a maneggiarle quei ciclopici palloni, a cercarle con le dita o le labbra i minuscoli capezzoli rosa smarriti in tanta ricchezza. Credo di averla almeno ringraziata con voci d’estasi, con atti che speravo le piacessero: difatti a miglia e miglia la mia destra si confrontava ormai col vertice del triangolo, col piccolo ignudo clitoride esposto dal rarefatto ruggine pubico che confermava le predizioni di Matteo, e in quella notte di conoscenza non potevo aggiornare ad altra data l’esplorazione della zona australe. Così dopo qualche ora mi sono spiccata dalle sue precipitose montagne e sono andata a franare molto più in basso, là dove a malapena si levavano due smorte collinette diserbate. Ho brevemente contemplato la fenditura, provocatoria per l’ermetica innocenza con cui le due valve si saldavano come per sempre, e prima di invaderla con la bocca, con la lingua, come si usa e si deve, l’ho disserrata e spalancata con le dita, scrutando alternativamente il viso distante e reclino dagli occhi chiusissimi e ciò che le mie dita forzavano, non per cattiveria, ma tanto per verificare come si presentasse rossa e pallida una figa di bambinona perduta.