Le avevo suonato, come al solito l’aspettavo sotto il portone. A esser giusta la frequentavo sì e no da una quindicina di giorni e nel corso di questa quindicina l’avevo vista forse quattro volte. Era sempre Max a telefonare, a decidere la nuova scadenza: ho tante sere impegnate, lavoro e amicizie, mi aveva detto all’alba della prima notte mentre mi rivestivo a tutta birra, ti telefono io. Non capivo cosa volesse da me e non me la sentivo di insistere, di pretendere. Anzitutto pensavo ancora a Filippo e rammentando i nostri amori non riuscivo a convincermi che non sarebbe mai più tornato a rivendicarli: ai tempi non smetteva di ridirmi che una passione come la nostra gli mancava dalla nascita, che il suo “vissuto erotico” con me (con mio divertimento chiamava proprio così le nostre pratiche trasgressive, il nostro sesso volentieri perverso; a un eloquio francamente osceno Filippo alternava raffinati eufemismi, palesi residuati dell’ottima e cattolicissima educazione ricevuta da piccolo) rappresentava una felice novità nella sua esistenza pur tutt’altro che casta, come sapevo dai suoi resoconti da innamorato, reciproci dei miei, che del resto me ne avevano ricostruita solo una menoma parte, molte delle sue infinite avventure Filippo le aveva dimenticate, o così sosteneva non sapeva più i nomi e confondeva le facce, cosa vuoi mai che sia successo, sminuiva, l’avrò scopata duetre volte, vabbene gliel’avrò messo nel culo, niente di più, io mi carezzavo lo stesso, le piccole gelosie retrospettive che andavo a pescarmi nel suo torbido mare avevano su di me l’effetto di un innocuo eccitante, non che ce ne fosse bisogno. Solo di rado affiorava dall’opaca memoria di Filippo qualche dettaglio più turbativo, per esempio una delle innumerevoli segretarie dello studio paterno che come tutte aveva coricata bocconi su una qualche scrivania fuori orario denudandole il culo, a questa Marisa frignona Filippo aveva fatto piacere introducendole una bottiglia di whisky nel dietro dalla parte del collo, nel davanti da quella della base, infine scopandola alternativamente nei due buchi beanti, senonché le geremiadi della masochista l’avevano soltanto seccato pretendeva Filippo, e subito cercava una variante nel mio corpo oblativo senza lagrime, nel mio cranio malato cui amava carpire, più che le storie senza sugo e autentiche della mia pregressa vita sessuale senza di lui (brodini da ospedale, commentava Filippo i miei racconti), quelle inventate di cui mi avvalevo per fabbricarmi i miei plurali orgasmi. Lui, che a sua volta di orgasmi ne aveva il più spesso più d’uno, non di rado doveva ricorrere alla mia voce per conquistarseli, nel qual caso mi sistemava comoda sotto di lui, mi penetrava coniugalmente e forniva al mio orecchio il primo spunto e insieme davamo la stura a un abietto duetto amoroso fino a un piacere da galera…
L’unica differenza rispetto al primo incontro consisteva nel fatto che adesso anzitutto “uscivamo”, dimodoché mi ritrovavo verso le nove ad attendere Max sottocasa come un uomo qualunque. Ma quando la vedevo sortire dal portone nel suo splendore con un vestito fuorimoda di sartoria alternativa, preziose incrostazioni su seta a forti tinte, quando intercettavo lo sguardo vigile, allegro e impavido dei suoi occhi violetti non truccati nel lungo viso d’angelo fiammingo o bizantino e automaticamente rispondevo al sorriso della bocca vermiglia ammirando il colore sempre diverso, dall’amaranto al rosa all’aranciato, che un parrucchiere alternativo aveva saputo inculcare al fulgido nimbo di Max, quando annusavo il suo profumo costoso avendo intanto fragile coscienza della mia immagine di donna vestita da uomo coi capelli disciolti fino all’anca e gli occhi pesantemente bistrati nella faccia di giovinetto d’antan, sempre mi domandavo con sgomento, mentre il corpo sottile di Max, ondeggiando sui tacchi, si chinava leggermente verso di me per il bacio e la voce di Max bassa e scura, sorridente nel tono, mi avvolgeva chiamandomi per nome, chi fosse la donna, chi l’uomo… Ci avviavamo al mezzo la mano nella mano, la mano di Max larga e forte, levigata fino alle lunghe unghie rosse, stringendo la mia più delicata e grinzosa dalle piccole unghie corte senza lacca; io, la donna in calzoni, facevo il cavaliere pilota, lei decideva il ristorante e il vino… Poi pagavamo alla romana.